Va precisato dunque che, durante l’era imperiale, Pompei e tutte le zone circostanti ad essa, rappresentarono per i Romani una zona si cui insediarsi, sia per farne una meta per le loro vacanze
e sia per sfruttare l’attivit� vinicola e le aziende agricole. Nell’area vesuviana furono costruite acque termali, ville rustiche su luminosi colli, e le cosiddette ville extraurbane, appartenenti a famiglie agiate che cercavano fuori dal caos della metropoli, al mare o in campagna, un’oasi di pace. Pompei era considerata dallo scrittore latino
Giunio Moderato Columella come una “dolce palude, vicina alle saline di Ercolano”. Pompei assieme ai Campi Flegrei, Ischia, Sorrento, Cuma, Boscoreale, Ercolano, Nola, Nocera, Acerra, ecc, erano state viste gi� dalla civilt� greca come paesaggi affascinanti, preziosi per i loro campi cos� fertili. Solo il 40% della popolazione pompeiana era umile, c’erano molti schiavi, liberti, artigiani e mercanti.
Nel 27 a. C. sotto il potere di Augusto, ha inizio per Pompei una fase di progressiva romanizzazione della vita quotidiana. I nobili, i potenti e le famiglie patrizie pompeiane, divulgando la cultura e lo sfarzo romano
introducono modelli architettonici e artistici dell’Impero Augusteo. Nel 62 d.C. sulla citt� di Neapolis, si abbatt� un pesante terremoto il quale colp� duramente anche la civitas pompeia, ma il danno maggiore si ebbe la notte del 24 agosto del 79 d.C., quando durante l’eruzione del Vesuvio furono distrutte Ercolano, Stabia e la medesima Pompei. Queste citt� furono interamente sepolte da un diluvio di lapilli, dalle ceneri e dalle molte scorie incandescenti. Si ricorda che durante quella tragedia perse la vita un noto scienziato naturalista latino, vissuto sotto l’et� dei Flavi,
Plinio il Vecchio, comandante della flotta del Miseno, il quale non solo si impegn� nel soccorrere le popolazioni colpite dal cataclisma ma voleva anche soddisfare la sua curiosit� scientifica osservando da vicino il
fenomeno della vulcanologia, un fenomeno che da sempre lo aveva affascinato e che fu letale per lo scrittore/scienziato in quanto mor� asfissiato da una forte nebbia di vapore.
A narrarci la morte del Vecchio Plinio fu suo nipote Plinio il Giovane (62 d. C. – 113 d. C.), chiamato cos� per non confonderlo con lo scienziato. Egli ci informa che lo zio quella notte era in compagnia di
Pomponiano e dopo aver indugiato a lungo se rimanere in casa (la quale vacillava a causa delle violente scosse di terremoto) o vagare all’aperto, decisero infine di affrontare la catastrofe. Fuori era notte, una notte
rischiarata dalle fiamme, dai fuochi, dalle faville; era impossibile fuggire per il mare a casa del maremoto, e cos� dopo tre giorni di lungo tormento il corpo del Vecchio Plinio fu ritrovato privo di sensi.
Anche
Valerio Flacco
(? – 90 d. C.), nel suo poema Argonautiche, rammenta l’orribile notte dell’eruzione. Narra l’angoscia degli abitanti, il timore degli eroi che fuggono, il minaccioso vulcano che annienta le citt� rimaste impotenti, i gemiti dei morenti che si diffondono nel buio infernale. Descrivendo la “cronaca” degli ultimi giorni dell’antica Pompei, attraverso le citazioni di illustri letterati latini, possiamo ben comprendere l’enorme terrore che provarono i nostri antenati in quei drammatici momenti, un terrore ancora cos� vivo e struggente se si osservano i famosi calchi fatti agli scavi durante l’Ottocento dal noto studioso Giuseppe Fiorelli.
(tm)
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