Le canzoni erano tante, ed erano al centro di questo favoloso movimento, ne venivano premiate cinque o sei, considerate le migliori, scritte ora da poeti di fama e da compositori di gusto, ora da
gente che per mestiere faceva tutt’ altra cosa che scrivere testi canori. In occasione quindi della Piedigrotta canora, nata nel 1835, ci fu un’esplosione di talenti che si espressero in dialetto e
descrissero e cantarono in musica i sentimenti e i problemi della città. Dietro quei versi e quelle note, gli scrittori napoletani cercavano con disperata allegria di trattare episodi di vita, di costume e di gusto strettamente
legati alla cronaca cittadina.
La festa di Piedigrotta, decretò l’Ottocento come il secolo d’oro della canzone napoletana, e
con essa si affermò anche lo sviluppo dell’editoria popolare e nacque quindi l’industria musicale. “Ci furono pertanto profondi cambiamenti nella festa tradizionale: erano nati nuovi riti, nuovi
‘pellegrinaggi’, nuove mete per le feste settembrine”. Luca Torre, ci informa che i primi editori delle canzoni piedigrottesche furono modesti tipografi che stampavano rozzi foglietti volanti, fogli su
cui venivano trascritti i testi delle canzoni più note e venivano venduti poi a un grano l’uno dai venditori girovaghi. All’autore invece veniva offerto qualche centinaio di copie e qualche carlino.
Si ascoltavano i brillanti versi di Libero Bovio, Roberto Bracco, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo, Rocco Galdieri, e i testi di “Io te voglio bbene assaje” di Raffaele Sacco; “E spingole francese”, “Nannì! Meh dimme ca sì!”, “Marzo”,
“”, di Salvatore Di Giacomo; “funiculì funiculà” di Peppino Turco; “O sole mio” di
Giovanni Capurro, divennero successi commerciali famosi in tutto il mondo, poiché i ritornelli di questi successi tendono a ridursi a puri giochi fonici.
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