Intervista a Loredana Limone

La cucina del Paese di Cuccagna. Passeggiate gastronomiche con Matilde Serao

In questa pagina intervistiamo la scrittrice napoletana Loredana Limone che ci parla del suo nuovo libro “La cucina del Paese di Cuccagna. Passeggiate gastronomiche con Matilde Serao” (vai alla scheda del libro). Con le sue coinvolgenti risposte ci prenderà per mano accompagnandoci lentamente nel Paese di Cuccagna e nei segreti dell’antica tradizione gastronomica napoletana.

Portanapoli: Ci spieghi il titolo del libro e perché ha scelto Il paese di Cuccagna di Matilde Serao?
L. Limone: Ho scelto Il paese di Cuccagna come romanzo originale da cui trarre questo libro perché è stato scritto da Matilde Serao che per me è un’autrice con una capacità descrittiva fantastica e perché mi sarebbe piaciuto seguire le sue orme nel campo giornalistico e letterario; inoltre perché sono nata a Napoli ed ho voluto approfondire una storia che mi interessava. E proprio perché si parla di Napoli e di gastronomia ho dedicato questo libro a mia madre che più di tutti mi ha nutrita.

Portanapoli: Come ha “conosciuto” la scrittrice Matilde Serao?
L. Limone: Ho conosciuto Matilde Serao quando ero ancora una ragazza e facevo teatro. Avevo diciotto anni all’epoca e dovevo prepararmi per un provino con Vittorio Gassman che allora aveva fondato una bottega di teatro e cercava aspiranti attori. In quel periodo, casualmente, stavo leggendo il mio primo libro della Serao, Castigo, che è un libro che appartiene al periodo della sua maturità, e scelsi un pezzo, un monologo, molto sofferto, in cui si parla dell’amore, della morte, della disperazione: temi quanto mai affascinanti per una ragazza diciamo sensibile e dall’animo inquieto.

Portanapoli: Come andò il provino?
L. Limone: Be’ il provino non lo superai, devo confessarvelo, però mi piacque tanto il modo di scrivere della Serao che volli leggere altre cose tra cui Il Paese di Cuccagna che appartiene alla prima fase della vita della Serao in cui era stata una delle più forti prosatrici del verismo, particolarmente attenta ai problemi sociali della sua Napoli.

Portanapoli: La Serao era napoletana?
L. Limone: Sì, era per metà napoletana sebbene fosse nata in Grecia, a Patrasso. Il padre era un giornalista napoletano esiliato a causa delle repressioni dei Borbone e la madre era greca, anzi una greca di sangue nobile. Quando Matilde Serao poté mettere piede nella sua patria, aveva già quattro anni.
 
Portanapoli: Quindi la Serao seguì la carriera del padre?
L. Limone: Sì, fu principalmente una grande, grandissima giornalista, e con suo marito, Edoardo Scarfoglio, anche lui giornalista, fondò il Mattino che è ancora oggi il principale quotidiano di Napoli. La sua più grande inchiesta è inclusa nel libro Il ventre di Napoli che descrive le abitudini ed i problemi della classe popolare abbandonata a se stessa. Qualcuno sostiene che Il Paese di Cuccagna sia il proseguimento romanzato del Ventre di Napoli.

Portanapoli: Ci parli di Matide Serao: che donna era?
L. Limone: Era una donna molto acuta ed intelligente, ma non era bella. La sua figura era tozza, sgraziata, chiassosa, gesticolava molto, le piaceva mangiare e le piaceva il pettegolezzo. Dall’acuta osservazione dei fatti altrui è nato Il Paese di Cuccagna, ironica definizione che l’autrice dà alla città di Napoli, pubblicato per la prima volta nel 1891. In esso l’autrice delinea uno spaccato della Napoli di fine Ottocento dove la gente, dalla plebe alla piccola borghesia, fatalisticamente affida le proprie superstizioni al gioco del lotto; il tema del lotto fa da collante a tutte le storie rappresentate nel romanzo. Quando sono entrata in contatto con la casa editrice Il Leone Verde per scrivere un testo per la collana “Leggere è un gusto”, ho preso Matilde Serao per la mano e l’ho seguita in una passeggiata gastronomica che parte dai vicoli, i quartieri fiabeschi e brulicanti, e finisce nelle case della piccola borghesia partenopea. Il mio libro è appunto un crescendo gastronomico.

Portanapoli: In che periodo è ambientato Il Paese di Cuccagna? Quale Napoli ci racconta?
L. Limone: Alla fine dell’Ottocento, quando il popolo viveva nella più profonda miseria, era abbandonato a se stesso e si arrangiava come meglio poteva. Pensate che ho trovato un articolo apparso su un giornale dell’epoca che diceva che un padre di famiglia aveva fatto una sorta di abbonamento con il pizzaiolo del quartiere il quale gli conservava ogni sera i resti che i clienti lasciavano nei piatti: per sfamare i figli, buchi di fame contornati da cornicioni di seconda mano!

Portanapoli: Invece, la Napoli del suo libro è un ricordo degli affreschi della Serao, oppure è
possibile imbattersi ancor oggi in un "friggitore che ci offrirà un cartoccio di fragaglie"?
L. Limone. No, oggi non più, forse qualcosa che lo ricorda vagamente si può trovare nelle zone più popolari dove la tradizione è molto più radicata, ma è andato perso quasi tutto della Napoli che fu. Ed è una cosa che nota maggiormente chi Napoli non la vive ogni giorno ma la rivede ad intervalli lunghi.

Portanapoli: Vivere lontano dalla sua Napoli l'aiuta a comprendere meglio la cultura partenopea?
L. Limone: Sì, anche se può sembrare paradossale. Perché posso fare dei confronti con persone, mentalità e modi di vivere differenti, ancorché credo che sia vero il detto che “tutto il mondo è paese”? 

Portanapoli: Napoli è notoriamente una città piena di contrasti. Come li ritroviamo nella gastronomia?
L. Limone: I contrasti di Napoli sono le conseguenze di svariate dominazioni e di una storia per niente lineare, e li ritroviamo inalterati anche nei piatti: raffinatezza e semplicità, cultura ed arte di arrangiarsi, sacro e profano.

Portanapoli: Il libro non l’ha scritto da sola …
L. Limone: No. Il ricettario è stato curato da mia sorella Antonella che è un’ottima cuoca e che si diletta a sperimentare le ricette regionali passando da una all’altra con molta disinvoltura. Per questo libro, è stata fatta una rielaborazione di ricette antiche che sono state svelate da anziane signore napoletane veraci, esattamente una nostra prozia e delle sue amiche, e si tratta veramente di pezzi di un’eredità tramandata verbalmente di secoli in secoli.

Portanapoli: Nella gastronomia preferisce l'ortodossia della tradizione o la fantasia - e se preferisce, l'azzardo - delle commistioni moderne?
L. Limone: Sicuramente la tradizione. Il fatto che abbia lavorato sul Paese di Cuccagna lo conferma.

Portanapoli: Nel suo libro lei ha parlato di passeggiate in crescendo: da dove è partita?
L. Limone: Dai pasti miseri eppure gustosi del popolo che si acquistavano per un soldo, come le fritture: le fragaglie, pesciolini misti fritti che vendeva il friggitore, oppure i panzarotti e le paste cresciute, rispettivamente crocchette di patate e zeppoline. Voglio chiarire che a Napoli i panzarotti sono le crocchette di patate dette crocché, mentre quelli che a Roma e a Milano si chiamano panzarotti, cioè frittelle di pasta con ripieno, a Napoli sono le paste cresciute che vengono fatte anche senza ripieno.
Altre pietanze da un soldo sono le castagne allesse, cioè le castagne lessate, la spiritosa e la scapece, piatti a base di verdura di cui è possibile leggerne le ricette e “gustosi” aneddoti nel libro. Va ricordato che i napoletani, notoriamente conosciuti come mangiamaccheroni, fino al seicento erano chiamati mangiafoglie, per l’alto consumo di verdure che facevano.

Portanapoli: Ha menzionato i maccheroni. Lei hai un simpatico aneddotto sui mangiamaccheroni per strada…
L. Limone: Continuando la nostra passeggiata vediamo per le strade le caldaie delle osterie. Le caldaie venivano installate all’aria aperta dove incessantemente cuocevano i maccheroni e il sugo di pomodoro. Il pomodoro infatti è il condimento preferito dei napoletani, senza il quale troverebbero disagevole risolvere il problema del desinare.
Nel libro ho descritto un rito che nel mese di settembre ogni famiglia napoletana faceva – tradizione sicuramente ancora in uso, anche se ormai solo marginalmente - per assicurarsi una riserva di salsa di pomodoro da utilizzare durante l’inverno.
Mentre la gente agiata mangiava a casa, i poveri acquistavano un piatto, un piattello, diciamo un piattino, di maccheroni per strada e li consumavano lì per lì utilizzando le mani per forchetta. Nel libro ho illustrato il modo in cui appunto essi facevano e in qualche fonte ho trovato che, oltre ad essere molto abili, riuscivano a non sporcarsi, ma quest’ultima cosa non l’ho riportata perché sinceramente stento a crederci. Questa modalità diciamo così vistosa di mangiare i maccheroni divenne un’attrattiva turistica ed entrò a far parte del folclore napoletano. Pare che i turisti pagassero piatti di pasta ai mangiamaccheroni per poter assistere a questa insolita scena.

Portanapoli: Passiamo ora ad uno dei simboli di Napoli nel mondo: la pizza.
L. Limone: Nel Paese di Cuccagna la pizza costituisce la colazione o il pranzo: un piatto unico che il popolo può comprare a poco.
Ci sono molti modi di fare la pizza e c’erano molti modi di venderla che sono illustrati nel libro, ma vorrei parlare velocemente delle pizze napoletane classiche che sono tre. Nel libro ho raccontato dei simpatici aneddoti su queste pizze, che riporto ora brevemente. In ordine cronologico abbiamo prima la mastunnicola, ormai in disuso, ma corrisponderebbe più o meno alla pizza bianca ed era fatta con strutto e ciccioli che a Napoli si chiamano cicoli; poi ci fu la marinara, con pomodoro, origano, olio ed aglio ed infine la margherita. Come è noto, la pizza margherita fu battezzata così in onore della regina Margherita di Savoia. Nella biblioteca di Palazzo Reale a Napoli sono riuscita a trovare un documento datato 11 giugno 1889 – che è stato riportato in fondo al libro - con cui il pizzaiolo che inventò la margherita – tale Raffaele Esposito titolare della pizzeria “Pietro e basta così” - fu ufficialmente insignito di un importante riconoscimento da parte della corte sabauda, così come era già accaduto con la corte borbonica.

Portanapoli: Dopo che ci ha solleticati con le fragaglie, le paste cresciute, i panzarotti e la pizza, passiamo al “dulcis in fundo”, la pasticceria napoletana che appunto chiude il libro.
L. Limone: Nel Paese di Cuccagna della Serao, che peraltro io vi invito a leggere perché ci sono degli affreschi descrittivi bellissimi, c’è un capitolo, il capitolo “Il battesimo d’Agnesina Fragalà, bella figlia di papà”, che narra la festa di battesimo di una bambina nata in una famiglia borghese, dove viene ampiamente descritta una pasticceria con tutta la sua produzione di dolci tipici, dato che i genitori della battezzanda sono pasticceri. La famiglia Fragalà viene presentata attraverso le storie dei dolci per cui l’omonima pasticceria era diventata famosa a Napoli, dopo un modesto inizio in un quartiere povero. Il nonno aveva iniziato come ambulante di mediocre frittelle, per poi giungere al successo con la pasticceria.

Portanapoli: Per descrivere i dolci napoletani servirebbe un capitolo a parte...
L. Limone: I dolci napoletani sono tanti, alcuni sono noti e vengono consumati sempre mentre altri sono meno conosciuti e vengono consumati solo per particolari ricorrenze. E a Napoli esiste un dolce per ogni ricorrenza, persino per i morti esistono dei biscotti chiamati osso di morto.

Portanapoli: Sfogliatelle e pastiera sono i simboli della pasticceria napoletana...
L. Limone: Io credo che tutti conoscano le sfogliatelle nelle loro varie versioni, riccia, frolla, di santa Rosa e che tutti conoscano la pastiera. Giusto per fare due esempi. Innanzi tutto è da dire che a Napoli per santificare le feste un cartoccio di paste è d’obbligo, così come rappresenta l’omaggio più semplice e sincero per ringraziare di un favore o per fare un augurio.

Portanapoli: Dove nascono i dolci napoletani?
L. Limone: La pregiata tradizione dolciaria partenopea nasce all’ombra di antichi conventi. E’ infatti dalle cucine dei monasteri che uscivano deliziose specialità riservate ai superiori ecclesiastici, ai medici che prestavano soccorso alle consorelle ammalate, ai parenti delle suore in occasione di feste e ricorrenze, in special modo a quelli della madre superiora che in genere apparteneva ad una famiglia d’alto lignaggio ed era stata costretta a prendere il velo nel rispetto di una tradizione medievale per la quale al primogenito soltanto erano concessi fasto e splendore.
Le modifiche, le evoluzioni dei dolci, erano il frutto di vari scambi di consigli e suggerimenti fra le madri badesse

Portanapoli: Ma è vero che le monache avevano una modalità di preparazione diciamo tutta particolare?
L. Limone: Sembra di sì. Si vociferava – voce di popolo, voce di Dio – che le monache lavorassero la pasta in maniera alquanto insolita: quelle che disponevano di natiche e fianchi più floridi, si sedevano sopra l’impasto che era stato messo sui sedili di marmo del loro chiostro e, sussurrando devote preghiere si dimenavano a lungo e ritmicamente permettendo così alla pasta di crescere rigogliosa.

Portanapoli: Qual è il dolce da lei preferito?
L. Limone: Nel mio libro ho indicato come regina dei dolci la pastiera ed effettivamente merita questo titolo perché primeggia su tutti gli altri dolci.

Portanapoli: Chiudiamo con due domande sulla sua attività: cosa è per lei "un buon libro"?
L. Limone: E’ quello che, dopo averlo letto, lascia un senso di soddisfazione.

Portanapoli: Cosa rappresenta per lei la scrittura e cosa è per lei lo scrivere?
L. Limone: La scrittura è far parlare il cuore; scrivere, dunque, è essere me stessa.

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