Salvatore Di Giacomo,
straordinaria voce poetica di Napoli (parte 2)

La scelta professionale di bibliotecario segn� profondamente la vita del poeta, non certo per gli oneri che il nuovo lavoro imponeva, ma per un incontro che a lui fu fatale e di certo si riflett� nei temi della sua poesia d’amore. Era il 1905 quando Di Giacomo - ormai reso famoso anche alla critica, grazie ad un saggio rivelatore di Benedetto Croce, che in seguito ne pubblicava in volume le poesie - conobbe una giovane studentessa del Magistero, la quale prese l’abitudine di recarsi alla Lucchesi Palli per conoscere e comprendere da vicino il poeta che aveva scelto di studiare per la sua tesi di diploma. Elisa Avigliano, questo il nome, una ragazza �auta e brunetta� (alta e brunetta) pi� giovane di lui di 19 anni, fra una frequentazione e l’altra accese tanto di passione il cuore dell’artista da diventare presto l’unico e tormentato amore della sua vita, che solo dopo 11 anni di fidanzamento fu coronato dal matrimonio, il 20 febbraio 1916. Fu una passione piena di sospetti e gelosie dall’una e dall’altra parte (�a nera gelusia�), scossa da liti e minacce di separazione, ma sempre struggente e vitale nel cuore di un poeta che nella sua napoletanit� fu anche fortemente meteoropatico e condizionato dal morboso affetto materno. �La mia anima� scriveva alla sua Elisa �� sempre come un cielo ora annuvolato, ora luminoso su cui rapidamente si avvicendano sole e nubi e devo ripeterti, ancora una volta, che il buono e il cattivo tempo lo fai unicamente tu�, forse preludio alla successiva Marzo: �Marzo: nu poco chiove / e n’ato ppoco stracqua: / torna a chiovere, schiove, / ride ’o sole cu ll’acqua. / Mo nu cielo celeste, / mo n’aria cupa e nera: / mo d’ ’o vierno ’e tempeste, / mo n’aria ’e primmavera. / N’auciello freddigliuso / aspetta ch’ esce ’o sole: / ncopp’ ’o tturreno nfuso / suspireno ’e vviole … / Catar�… Che buo’ cchi�? / Nti�nneme, core mio! / Marzo, tu ’o ssaie, si’ tu, / e st’auciello songo io�. Gli alti e bassi di questa storia furono senz’altro fecondi per alimentare la vena poetica di Di Giacomo, anche quando degenerano in misogine affermazioni come ne Le bevitrici di sangue: �Nun ridere! Li femmene / so ’nfame tutte quante, / e pure quanno rideno / metteno ncroce ’e sante�.
  Ma proprio questa caleidoscopica umanit� di emozioni, percepite alla luce del sole, al chiarore della luna, nel tremolio del mare, fra le eterne stagioni che descrisse, l’amore per la madre, per la donna - amore corrisposto, amore lontano, amore deluso, amore �addurmuto� e poi �scetato� - resero la sua produzione, sia pur cos� aderente alla realt� geografica di quei tempi, intensamente universale e cosmopolita, tanto che il critico Gianfranco Contini nel 1968 consider� la voce del Di Giacomo �in assoluto una delle pi� poetiche del suo tempo�, permettendo alla poesia in dialetto di tornare qualitativamente, come gi� per il Belli a Roma, competitiva con quella in lingua. Dunque sarebbe riduttivo parlare di poesia popolare per un autore che seppure attinse idee e suggestioni dalla sua citt�, la elev� nell’ambito di una stagione felicemente creativa e alta per letterati e musicisti partenopei, tragicamente interrotta dalla prima guerra mondiale. Osservava a proposito Pasquale Scial�: �Di Giacomo rappresenta il ceto intellettuale che cerca nel vernacolo una verginit� espressiva diversa da quella dei moduli stantii degli accademici�. Mentre, nel 1911, Croce scriveva �pel Di Giacomo l’uso del dialetto (del particolare dialetto digiacomiano) � stato la forma spontanea e necessaria in cui si � espressa la sua anima e quasi il mezzo di liberazione della sua poesia dalla “letteratura” insidiatrice� e �la poesia (la vera e alta poesia) dialettale napoletana coincide del tutto con la persona del Di Giacomo, il quale non ha in essa n� predecessori n� (finora almeno) successori�. Ma il Di Giacomo protagonista della svolta dialettale del Novecento avrebbe poi rappresentato un modello per tutta la successiva produzione neodialettale meridionale, e non solo.
  Tuttavia, il grande amore del poeta, il tema principale della sua produzione, fu senza dubbio Napoli. Quella citt� che ancora non conosceva gli orrori della Grande Guerra e che profumava dei suoi innumeri giardini, dei cibi saporosi delle antiche trattorie, nei vicoli sospesi tra cielo e mare, dove si ascoltavano le ‘voci’ gridate dei mestieri e i canti melanconici degli innamorati. Quando egli si spense nella notte tra il 4 e il 5 aprile 1934 nella sua casa di San Pasquale a Chiaia, Napoli perse uno dei suoi maggiori interpreti, che nel ’29, al culmine del successo, era stato perfino nominato Accademico d’Italia. Personalit� versatile, il Di Giacomo poeta storico letterato studioso giornalista bibliotecario lasciava un repertorio di immagini, parole e musiche che condensavano tradizioni, voci e sentimenti di una “Napoli nobilissima” di cui egli forse seppe tessere come pochi gli elogi, attraverso l’infinito amore che la sua gente sempre gli mostr� e ch’egli ricambi�, spesso passeggiando fra quelle viuzze dove si fermava ad osservare il popolo con la sua spettacolare e congenita teatralit�. E di Napoli l’artista vagheggiava nostalgicamente soprattutto il glorioso passato settecentesco, la sua pittura lussureggiante, le armonie musicali e il melodramma di Metastasio, il vivace teatro, negli anni in cui la citt� aveva il gran respiro di capitale europea, accanto a Parigi, Vienna, Londra. Ha scritto giustamente di lui Max Vajro: �Di Giacomo ha scritto di Napoli tutto quello che un poeta poteva, componendo il pi� affascinante e dolente ritratto della citt�: cronache di tribunale, scene di silenziosa miseria, amori furenti e abbandoni, rappresentazioni dell’amara vita dei fondaci, ricostruzioni di scene amabili del settecento… la turpitudine della malavita� ma anche �l’eleganza della classicit� napoletana�. � come se egli avesse dato voce e solennit� alla secolare poesia della sua citt�, non a caso raggiungendo le massime espressioni in quelle che furono da sempre le sue intrinseche forme d’arte: la canzone e il teatro. �Nu pianefforte ’e notte / sona luntanamente, / e ’a museca se sente / pe ll’aria suspir�. / � ll’una: dorme ’o vico / ncopp’ a sta nonna nonna / ’e nu mutivo antico / ’e tanto tiempo fa. / Dio, quanta stelle ncielo! / Che luna! E c’ aria doce! / Quanto na bella voce / vurria sent� cant�! / Ma sulitario e lento / more ’o mutivo antico; / se fa cchi� cupo ’o vico / dint’ a ll’oscurit�. / L’anema mia surtanto / rummane a sta fenesta. / Aspetta ancora. E resta, / ncantannose, a penz�

(nb)

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