Salvatore Di Giacomo,
straordinaria voce poetica di Napoli (parte 1)

Articolo di Nevia Buommino, insegnante di Lettere

�Ncopp’a lu mare passano, cantanno
d’ammore e gelusia, li rundinelle
quando a n’ato paese se ne vanno�
(da Fronna D’Aruta)

  Si avviava a seguire la professione del padre, il giovane Salvatore Di Giacomo, quando in una piovosa mattinata dell’ottobre 1880, rimasto scioccato da una lezione di anatomia, decideva di allontanarsi da quegli ambienti e un grottesco episodio segnava il suo addio alla medicina: risalendo le scalette, che portavano gi� ai laboratori, vide scivolare davanti a s� il bidello che teneva sulla testa una �tinozza di membra umane� e nel cadere con lui rotolarono �teste mozze, inseguite da gambe insanguinanti�.
  L’orrore di quella scena sembra ancora riecheggiare nei primi racconti di impianto e ambientazione tedesca, che il Di Giacomo si accinse a scrivere e a pubblicare sul “Corriere del Mattino”, negli anni in cui per vivere lavorava come correttore di bozze, presso la tipografia editrice di Francesco Giannini, per poi diventare nel 1883 cronista. Ma fu questo il periodo decisivo per lui, perch� da un lato fece fondamentali incontri, come quello con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che lo introdussero in pi� vivi ambienti napoletani, e dall’altro la sua attivit� di giornalista e fotografo, talora anche di cronaca nera, lo avvicinarono alla Napoli pi� verace e sofferta con i suoi drammi e miserie emersi nel ventennio postunitario, quando Partenope perse i suoi privilegi di capitale borbonica.
  Ed � grazie a questo repertorio di fatti e immagini, tratti da vicoli, carceri, tribunali, ospedali, fonte della sua produzione e in particolare del suo realistico teatro, che Di Giacomo sottrasse la letteratura napoletana al riduttivo bozzetto verista, importandovi l’anima pi� profonda di una citt� che presto si identific� nella sua poesia: temi e valori in cui i lettori si potevano riconoscere, come pi� tardi accadr� con Eduardo De Filippo. Ci� sembra spiegare il vasto consenso di pubblico alle sue prime canzoni, che in quegli anni validi artisti musicavano, quali Mario Costa per la petrarchesca Era de maggio, Enrico De Leva che rese famosa ’E spingole frangese e il rinomato Francesco Paolo Tosti per Marechiare, la cui melodia la rese talmente celebre in tutto il mondo da farla tradurre in pi� lingue e persino in latino �Luna cum Claris Maris exstas undis / aestuant pisce furiis amoris: / pura perlabens variat micantes unda colores� (�Quanno sponta la luna a Marechiare / pure li pisce nce fanno a ll’ammore, / se revoteno ll’onne de lu mare, / pe la priezza cagneno culore�).
  Nel 1896 il Di Giacomo ormai trentaseienne smise col giornalismo, lasciando il “Corriere di Napoli”, per cercare - in una sorta di claustrofilia - nel silenzio e nel chiuso delle sale di lettura, in qualit� di bibliotecario della Lucchesi Palli (sezione della Biblioteca Nazionale), quella calma che sentiva necessaria alla sua ispirazione e al suo carattere umorale, beneficiando della notoriet� che le sue canzoni ormai popolari gli garantivano. Si teneva cos� lontano da clamori e mode della belle �poque partenopea, quasi estraneo alle tendenze letterarie del periodo (col classicismo professorale di Carducci, il decadentismo rurale di Pascoli, lo snervante estetismo di D’Annunzio, che pure a Napoli era di casa), per portare ad estrema perfezione quel dialetto che assorb� nella sua matrice popolare suggestioni ed echi antichi di letteratura alta: dai lirici greci, quale Saffo, all’opera buffa di Paisiello, per passare attraverso le esperienze di Cortese e Basile. Di Giacomo, dunque, realizzava un’originale sintesi che pur nella struttura colta ha l’immediatezza della lingua parlata: era il dialetto �digiacomiano�, definito un napoletano italianizzato.
  Intanto il successo gli arrideva anche grazie alla pubblicazione di libri di prose (Minuetto settecentesco, Nennella, Mattinate napoletane, Rosa Bellavita) e ai primi lavori teatrali presto rappresentati con buon esito (La Fiera, La Mala Vita, A San Francisco). La poesia digiacomiana, forse perch� voce di un popolo che attraverso il canto e la naturale teatralit� esprimeva se stesso, rivel� immediatamente una sua intrinseca musicalit�, tanto da portare la canzone napoletana - tra fine ‘800 e primo ‘900 - alle proporzioni di vero e proprio fenomeno culturale.

(nb)

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